Chi ha visto e ascoltato un’altra mia narrazione, il Kohlhaas tratto da Kleist, potrà meglio comprendere le ragioni di questo Corpo di Stato e il filo che li lega, poiché il tessuto è lo stesso: il rapporto conflittuale tra esigenza di rivolta contro l’ingiustizia e assunzione del ruolo di giustiziere.
Ma questa volta non siamo nella Germania del 1500, ma nel nostro passato prossimo. È sempre difficile raccontare qualcosa che ci è tanto vicino, specie se quel qualcosa ha inciso profondamente sulle nostre esistenze e sulle nostre scelte.
La materia è ancora così pulsante e non dipanata dalla lontananza, che si rischia allora di leggerla col senno di poi, filtrandola e mettendola a distanza di sicurezza.
Ho cercato allora di ritornare laggiù, in prima persona, ricordandomi di me in quei giorni, trovando nelle mie esperienze di allora quelle “piccole storie” che sole possono tentare di illuminare la Storia più grande. Ho ripercorso momenti dolorosi senza perdere però le atmosfere di quegli anni, gli entusiasmi, i paesaggi metropolitani, le contraddizioni.
Nei 55 giorni della prigionia di Moro ho raccontato di una lacerazione, di come il tema della violenza rivoluzionaria abbia dovuto fare i conti con un corpo prigioniero, e come questa immagine sia divenuta via via spartiacque per scelte fino ad allora rimandate, abbia fatto nascere domande e conflitti interiori non più risolvibili con slogan o con pratiche ideologiche.
Ho raccontato le mie storie, prima ancora che su un palco teatrale, davanti a una telecamera; l’emozione della diretta televisiva è cosa diversa dall’eccitazione inquieta con cui ogni volta entro in scena a narrare.
Ora torno sulle tavole di legno a me care, non devo più cercare l’occhio di una telecamera, ma gli occhi di spettatori in carne e ossa; non sarò né personaggio né narratore esterno, questa volta, ma io stesso narrante, un’esperienza nuova, una messa in gioco del personale, una dichiarata visione soggettiva di quegli anni.
Amici, compagni, avversari, potranno avere i giusti motivi per non essere d’accordo o per trovare identità, per quelli che non c’erano, i giovani d’oggi, sarà come visitare un mondo che appare tanto lontano, quasi incredibile; spero che per tutti, come è già accaduto dopo la trasmissione televisiva, scatterà il desiderio di parlare, di contraddire con altri racconti: è un modo di uscire allo scoperto, di raccontarsi agli altri, di rievocare quei tempi difficili e densi. Quando si esce da momenti e tempi in cui la vita è stata pregna di avvenimenti, quando il vivere è sembrato intenso anche nel dramma, dopo, col tempo, ci si sente sempre un po’ stranieri, come reduci, testimoni di eventi troppo densi per essere dipanati. Camus dice “Non essere ascoltati: è questo il terribile quando si è vecchi”.
Il narratore compie sempre questa sfida, straniero nel tempo cerca di vincere con il racconto la vecchiezza che stende sulle cose del mondo un manto spesso di oblio.
Come si fa a raccontare di Moro?
Moro, anzi come si dice, “il caso Moro” è forse e per molti aspetti insieme -da quello giudiziario a quello politico da quello culturale a quello sociologico – il passaggio più drammatico e deciso per l’Italia dopo la fine della guerra. Il materiale di documentazione è infinito, gli elementi contraddittori tanti quante le zone oscure.
I morti di via Fani, i volantini, le immagini di Moro prigioniero, le dichiarazioni dei politici, gli appelli dei familiari, le prese di posizione dei politici, le indagini, i sospetti, i covi, le lettere di Moro, tutto quello che è stato detto nei quattro processi tutto questo non si può raccontare.
Per noi bisogna partire da altro: dall’emozione di quel corpo sacrificato più forte di ogni altra parola. Così la narrazione ha ritrovato la sua ragione più profonda, che non è tanto la necessità di salvare dall’oblio la verità storica o di comunicarla in modo avvincente per il grande pubblico, ma la necessità di fare, attraverso il racconto, esperienza delle lacerazioni profonde che segnano la storia personale dentro all’orizzonte della grande Storia e leggerle alla luce dei cambiamenti, anche profondi, che queste hanno generato, con il coraggio però di restituirli così quei giorni, con il loro drammatico disorientato tra euforia, ferocia e pietà.
Moro, anzi come si dice, “il caso Moro” è forse e per molti aspetti insieme -da quello giudiziario a quello politico da quello culturale a quello sociologico – il passaggio più drammatico e deciso per l’Italia dopo la fine della guerra. Il materiale di documentazione è infinito, gli elementi contraddittori tanti quante le zone oscure.
I morti di via Fani, i volantini, le immagini di Moro prigioniero, le dichiarazioni dei politici, gli appelli dei familiari, le prese di posizione dei politici, le indagini, i sospetti, i covi, le lettere di Moro, tutto quello che è stato detto nei quattro processi tutto questo non si può raccontare.
Per noi bisogna partire da altro: dall’emozione di quel corpo sacrificato più forte di ogni altra parola. Così la narrazione ha ritrovato la sua ragione più profonda, che non è tanto la necessità di salvare dall’oblio la verità storica o di comunicarla in modo avvincente per il grande pubblico, ma la necessità di fare, attraverso il racconto, esperienza delle lacerazioni profonde che segnano la storia personale dentro all’orizzonte della grande Storia e leggerle alla luce dei cambiamenti, anche profondi, che queste hanno generato, con il coraggio però di restituirli così quei giorni, con il loro drammatico disorientato tra euforia, ferocia e pietà.
ORARIO SPETTACOLO h 10.30
INFO E PRENOTAZIONI Il Teatro del Sole di Francesca Calabrese – 3342373833 – [email protected]
di e con Marco Baliani
drammaturgia e regia Maria Maglietta
collaborazione drammaturgica Alessandra Rossi Ghiglione
montaggio video Michele Buri
ricerca iconografica Eugenio Barbera
produttore esecutivo Maurizio Agostinetto
direzione tecnica Massimo Colaianni
una produzione Casa degli Alfieri, Trickster Teatro